Amici Miei, diretto nel 1975 da Mario Monicelli, è un film entrato nell’immaginario collettivo come una delle più riuscite e divertenti commedie del cinema italiano. Molti lo ricordano per scene e momenti iconici come gli schiaffi alla stazione o la celeberrima supercazzola per confondere l’interlocutore ad opera del conte Mascetti. Battute, dialoghi, citazioni sono diventati dei veri e propri modi di dire nel quotidiano, e lo spirito goliardico e libertino che caratterizza le imprese dei protagonisti è oggi oggetto di malinconia per tempi andati. Ma Amici Miei è soltanto questo? O ad essere più giusti, è davvero questo? E’ una commedia dai toni sbarazzini il cui scopo è farci provare una sorta di empatica invidia per i suoi personaggi, o è, a conti fatti, un macabro e sardonico dialogo tra la commedia e la morte?

La commedia all’italiana
Facciamo prima un po’ di storia. La commedia all’italiana, di cui Monicelli è uno degli esponenti di spicco, si è sempre servita del linguaggio umoristico e ironico per raccontare tragedie o realtà complesse e drammatiche.
Monicelli detiene addirittura il primato della prima commedia in cui subentra bruscamente l’elemento della morte, ovvero I soliti ignoti del 1958, che è in sé un ottimo esempio di che cosa sia stata la commedia all’italiana, quali fossero i suoi stilemi e la sua poetica. Il film racconta le vicende di un gruppo di ladruncoli del dopoguerra, una banda di pezzenti imbranati e scalcinati che tentano un grosso colpo in un monte dei pegni, finendo per rimediare solo un po’ di pasta e ceci.

Situazioni e intrecci indubbiamente colorati di umorismo che fanno però emergere una realtà sociale fatta di fame e miseria, riprendendo il discorso iniziato dal neorealismo e alleggerendolo con garbo e ironia, ma senza far scordare allo spettatore che la realtà è in agguato dietro l’angolo, come avviene a Cosimo, il ruvido personaggio interpretato da Memmo Carotenuto che funge come una sorta di da antagonista della vicenda e che viene schiacciato da un tram in corsa mentre tenta uno scippo.
Monicelli più di ogni altro autore di commedie dell’epoca ha fatto un abbondante uso della Morte nei suoi film, ne I Compagni, dove lo sciopero degli operai nella Torino ottocentesca viene brutalmente stroncato dalle guardie regie che lasceranno più di un cadavere lungo la strada, ne La Grande Guerra, dove i due protagonisti Vittorio Gassman e Alberto Sordi preferiranno l’esecuzione alla delazione in un piccolo gesto tanto eroico quanto tragicomicamente non riconosciuto, perfino nel dittico picaresco di Brancaleone la nera mietitrice si porterà via il vecchio Abacuc nel primo capitolo e si paleserà con tanto di falce allo spavaldo cavaliere da Norcia nel secondo.

Diciassette anni dopo
Attraversando gli anni del dopoguerra arriviamo fino a quel 1975 e ad Amici Miei, film che sarebbe dovuto uscire per la regia di Pietro Germi e che a causa del prematuro decesso di quest’ultimo passa nelle mani di Monicelli che rimette mano alla sceneggiatura, cambia l’ambientazione da Bologna a Firenze come voluto originariamente dagli autori Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli e lo porta a diventare il successo dell’anno al botteghino e la pellicola di culto che tutti conosciamo. Nonostante come abbiamo già detto il dialogo tra Commedia e Morte non è nuovo nel nostro cinema, qui è forse necessaria qualche riflessione in più.
Diciassette anni sono passati dai Soliti Ignoti, ovvero dagli albori della Commedia all’italiana, e l’Italia è profondamente cambiata.
C’è stato il sessantotto di mezzo, c’è stato il 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana, sono iniziati gli anni 70′ all’insegna di forti tensioni politiche, crisi economiche e violenze sociali, il boom economico ormai è soltanto un ricordo.
Certo, Amici Miei non è un film con velleità politiche, né racconta fatti e situazioni riconducibili ad una realtà sociale concreta, come invece hanno fatto altri registi in quegli anni quali Pier Paolo Pasolini, Elio Petri o Giuliano Montaldo, ma sviscerandolo con maggiore attenzione, in esso sono contenuti più segni di un Paese che non riesce più a ridere di sé stesso di quanto possa sembrare.

Zingari, senza una meta e senza un domani
La cosa prima che è fondamentale salti all’occhio è che Amici Miei è un film profondamente cupo. Le luci sono cupe, la fotografia è cupa, le musiche sono cupe. A dispetto dell’aura ridanciani che negli anni si è portato dietro, non vi è nulla di allegro e solare nella sua messa in scena.
A cominciare dai malinconici titoli di testa, dove in una Firenze ancora immersa nelle ultime ombre della notte, il Perozzi (Philippe Noiret), stacca flaccidamente dal suo lavoro al giornale e in una atmosfera quasi noir, solleticata anche dalla sua voce narrante fuori campo, va a fare colazione in un bar pieno di derelitti e prostitute.
La trama di Amici Miei è piuttosto semplice. Cinque amici (quattro di storica data più un quinto acquisito nel tempo) si divertono a fare lunghe scampagnate in macchina, che loro chiamano zingarate, nel corso delle quali si divertono ad architettare burle e scherzi di pura tradizione toscana al prossimo.

La struttura narrativa è divisi in tre segmenti centrali. Il primo sull’incontro con il quinto elemento del gruppo, il professor Sassaroli (Adolfo Celi), conosciuto previo innamoramento del Melandri (Gastone Moschin) della di lui moglie; il secondo sulla misera e grottesca vita del Mascetti (Ugo Tognazzi), nobile decaduto diviso tra il trovare un tetto per la moglie e la figlia e lo stare con la procace amante diciassettenne; e infine l’elaborato scherzo ideato dal Necchi (Duilio Del Prete) ai danni dell’ingenuo pensionato Righi (Bernard Blier) al quale viene fatto credere di avere a che fare con una cosca malavitosa.
A fare da cornice ai tre segmenti c’è l’intero arco di una giornata passata dai cinque amici girovagando tra campagne e paesini e che si concluderà tragicamente con la morte di Perozzi, stroncato da un infarto appena ritornato a casa.
La Commedia e la Morte
Questa la storia riassunta molto sbrigativamente, ma al netto di tutto, qual è il vero fulcro a cui ruota intorno ad Amici Miei? Secondo la modesta opinione di chi scrive, Amici Miei è un film il cui reale perno è proprio la Morte. Certo, in un continuo dialogo con la Commedia, ma diversamente da I Soliti Ignoti, dai Compagni e da altre pellicole che univano l’ironia al dramma, mai come in questo film la Nera Signora è così presente e incombente.
E’ un film sulla Morte e soprattutto sulla fuga da essa. Cosa fanno infatti i cinque protagonisti se non scappare dall’ineluttabile? E’ solo una goliardica e spensierata gioia di vivere quella che anima il Perozzi e i suoi amici? O è un tentativo di fuggire un destino in agguato tingendo il nero della la tragedia con pennellate che hanno un acre odore di patetico e di grottesco?
Tutto è uno scherzo per i cinque zingari, uomini di mezza età quasi tutti con una famiglia e una buona professione alle spalle, e non prendere sul serio ciò che li circonda è una necessità impellente, un bisogno fisiologico, la vecchiaia avanza ma loro devono sentirsi giovani, vigorosi, esuberanti e soprattutto devono ridere, ridere della vita, di sé stessi e degli altri.
Ma la Realtà è dietro l’angolo. La Morte non sta agli scherzi, arriva e ci prende quando meno ce lo aspettiamo, non fa sconti, e allora ecco che bisogna ridere anche sul letto di morte e al corteo funebre, non bisogna fermarsi e contemplarla, così avrebbe davvero vinto lei. bisogna passarle sopra, continuare il perenne ed eterno scherzo, anche se lei è sempre lì nell’aria, e colpirà ancora, e il dolore per la perdita del Perozzi è comunque vero, palpabile e autentico.
Ecco perché Amici Miei il dialogo tra la Commedia e la Morte si fa molto più centrale e pregnante che nei suoi predecessori.

Pare che c’è tutto e invece non c’è nulla
Un film cupo dicevamo, un film dall’atmosfera plumbea, pesante, a cui soltanto le mascalzonate dei cinque fanno da contrappeso.
Si ride, indubbiamente, ma non solo nel finale ci viene ricordato come quelle risate siano solo un palliativo alla tragedia del reale.
Prendiamo per esempio il secondo segmento, quello del Mascetti, il personaggio più unico e al tempo stesso più tragico di tutti. Lui, che preferisce lasciare moglie e figlia in uno sperduto paesino di montagna a morire di freddo pur di stare con la sensuale Titti, e che solo quando scopre il suo lesbismo si decide a trovare una sistemazione alla disgraziata famigliola.
E’ quasi straziante la mesta presentazione che il conte fa della nuova magione in una sudicia e fredda cantina arredata alla bell’e meglio, luogo angusto e buio che sarà teatro del drammatico tentativo di suicidio della signora Mascetti (Milena Vukotic) dopo che ha scoperto gli intrallazzi amorosi del marito, e che sarà sventato solo per il rotto della cuffia da quest’ultimo.
La Morte è sempre in agguato, è come un sesto compagno di avventure che li segue silenziosamente e senza farsi vedere, per poi colpire quanto tutto sembra finito.

Ma poi è proprio obbligatorio essere qualcuno?
C’è anche un altro aspetto da prendere in considerazione, ovvero le qualità dei personaggi.
Nella tradizione della Commedia all’italiana, i protagonisti hanno quasi sempre avuto la caratteristica di ispirare simpatia e empatia nel pubblico, rappresentati il più delle volte come poveri diavoli un po’ ingenui e scombinati, vittime di un mondo assai più furbo e spietato di loro, bersagli e non carnefici, vinti e vincitori. I ladruncoli de I Soliti Ignoti sono ancora una volta un ottimo esempio a questo proposito. Peppe e la sua banda ci sono simpatici perché sono dei perdenti nati e nonostante questo sono vitali, energici, anche nella sconfitta mantengono una loro dignità, e lo stesso dicasi del professor Sinigallia e gli operai de I Compagni, di Jacovacci e Busacca de La Grande Guerra, di Brancaleone e la sua armata di pezzenti.
In Amici Miei le cose non sono esattamente così. Il Perozzi, il Mascetti, il Melandri, il Necchi e il Sassaroli non sono dei buoni. Non sono delle vittime, sono dei carnefici.
A ben vedere sono tutti personaggi estremamente sgradevoli, cinici e spesso insensibili di fronte alle disgrazie altrui, e inoltre non sono dei poveri proletari che vivono di espedienti, sono un gruppetto di borghesi di vitelloniana e felliniana memoria, a cui la vita ha dato più o meno tutto quello che basta per vivere dignitosamente. L’unica eccezione è il Mascetti, che pur essendo stato un nobile vive in uno scantinato e si fa ospitare dai compari quando è senza un tetto sulla testa, eppure paradossalmente lui è più sgradevole di tutti, arrogante e vigliacco soprattutto nei confronti di quella inerme e inconsapevole donnina che è sua moglie.
Cosa c’è in loro che ci crea un legame e ci porta nonostante tutto a simpatizzare per le loro imprese?
Prendiamo il Perozzi e il suo rapporto a dir poco conflittuale con il figlio Luciano e con la ex moglie. Noi siamo ovviamente portati ad avere questi ultimi due in antipatia, e come potrebbe essere altrimenti? Questi due “mostri” così grigi e insensibili, totalmente privi di senso dell’umorismo, rigidi e bacchettoni come se la vita fosse un convento di clausura.
Eppure nonostante tutto non sono loro le vittime di un padre e un marito che ha sempre avuto, come poi si evincerà nell’Atto II, uno scarsissimo rispetto per loro, che li ha sempre presi in giro e utilizzati unicamente per il suo tornaconto?
Eppure è impossibile, Luciano e la signora Perozzi escono dalla vicenda come i personaggi negativi. Non c’è nulla che potrebbe cambiare il nostro giudizio su di loro.
Perché questo? Molto probabilmente perché Perozzi e soci sono molto più una nostra proiezione sociale di quanto lo fossero Peppe e i ladruncoli de I Soliti Ignoti.

Un Paese che non può più ridere di sé stesso
Come abbiamo detto qualche paragrafo più in su, Amici Miei esce in un periodo storico in cui l’Italia è profondamente cambiata. Tutto meno semplice, meno spontaneo e più complesso, l’Italia, ma non solo, sta entrando in un’ottica di vita molto più alienata, convulsa, violenta, cinica.
La nostra empatia con i cinque zingari deriva probabilmente dal fatto che anche noi come loro condividiamo lo stesso desiderio di fuga dalla Morte. La morte non solo come atto fisico, ma come desolazione sociale. Così alienati in una società nevrotica e consumistica che non troviamo altra soluzione che farci beffe di tutto e tutti, soprattutto di chi la vita la prende seriamente.
Così da vittime ci facciamo carnefici, perché è la paura a guidare le nostre azioni, la paura di non vivere fino in fondo, di essere solo piccoli e meschini individui che alla resa dei conti qualcuno, come la signora Perozzi, classificherà come dei “nessuno” o anzi peggio dei “niente”, in un mondo in cui a quanto pare è obbligatorio essere qualcuno.
Atto di ribellione eroico o un patetico tentativo di fuga senza uscita?
Quello che è certo è che Amici Miei, pur senza velleità sociologiche palesate riesce ad essere una perfetta fotografia di un mondo che sta inesorabilmente cambiando, a cui è sempre più difficile ridere a cuor leggero di sé stesso e delle sue disgrazie, le risate si fanno sempre più amare, più sgraziate, più volgari, più nere.

Vengono alla mente alcune considerazioni di Pasolini, ucciso per altro lo stesso anno di uscita del film, quando sosteneva che il suo Accattone non sarebbe potuto essere lo stesso film girato dieci anni dopo, sarebbe stato antropologicamente diverso e avrebbe raccontato una umanità completamente diversa.
Esattamente come la Commedia all’italiana non può più essere la stessa ed è destinata lei stessa a morire da lì a poco.
A ben vedere Amici Miei ha ben poco a che spartire con i film del suo stesso genere e ha molte più affinità con un film a tinte ben più fosche come La Grande Abbuffata di Marco Ferreri. Anche lì’ abbiamo un gruppo di amici alle prese con la Nera Signora, con la differenza che anziché fuggirla la inseguono per raggiungerla, ma il ghigno sardonico di fondo pur con le dovute differenze, è molto simile.

Non è un caso che tre anni dopo Monicelli girerà un film come Un borghese piccolo piccolo, dove la commedia lascia definitivamente il posto al dramma e in cui anche un animale istrionico come Alberto Sordi viene trasfigurato in un personaggio colorato del nero della tragedia.
Come a dire “avete riso fin troppo, ora non c’è veramente più niente da ridere”.
Epilogo – Mario
Un’ultima postilla. Il 29 novembre 2010, Mario Monicelli si toglie la vita gettandosi dal quinto piano dell’ospedale dove era ricoverato come malato terminale. In molti hanno rilevato come il suo suicidio sia stato degno dell’uscita in scena di un personaggio di uno dei suoi film.
E’ bello pensare che forse fino alla fine il nostro ha creduto a quel dolceamaro dialogo che collega la Commedia, alla Morte, che poi alla resa dei conti è la Vita.

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